IL TRIBUNALE
    Ha pronunziato la seguente ordinanza nel  procedimento  penale  n.
 25/1994 a carico di: 1) Barboni Fabio, nato a Muccia l'8 aprile 1948,
 residente  in  Ancona,  via Cadore n. 12; 2) Braghetti Nicola, nato a
 Camerino il 3 dicembre 1950, residente a Muccia, contrada Varano,  n.
 8; imputati entrambi:
       a)  della  contravvenzione  p.  e  p. dagli artt. 110, 1-sexies
 della legge n. 431/1985 e 20  lettera  C)  della  legge  n.  47/1985,
 poiche'  in concorso fra loro (il primo quale sindaco committente, il
 secondo quale assuntore  delle  opere)  realizzavano  una  strada  di
 collegamento     (Muccia    centro    abitato-cimitero)    in    zona
 paesaggisticamente vincolata, senza essere muniti  di  autorizzazione
 paesaggistica. In Muccia, nel settembre 1992;
       b) della contravvenzione p. e p. dagli artt. 110 del c.p. e 20,
 lettera  C) della legge n. 47/1985, poiche', nella medesima qualifica
 di cui sopra, realizzavano quell'opera  in  mancanza  di  concessione
 edilizia. Stesso luogo e tempo;
       c)  della  contravvenzione p. e p. dall'art. 734 del c.p. e 110
 del c.p., poiche', mediante  l'opera  di  cui  sopra,  alteravano  le
 belleze  naturali  di  quei  luoghi soggetti alla speciale protezione
 dell'autorita'. Stesso luogo e tempo;
       d) della contravvenzione p. e p. dall'art. 20, lettera A) della
 legge n. 47/1985, poiche', nella medesima qualifica di cui sopra e in
 quella medesima attivita', omettevano l'apposizione della  recinzione
 e del prescritto cartello. Stesso luogo e tempo.
    Barboni Fabio: del delitto p. e p. dall'art. 328 del c.p., secondo
 comma,  poiche',  quale sindaco di Muccia, indebitamente rifiutava un
 atto del suo ufficio (rimessa in pristino dei luoghi),  pur  avendone
 avuta  richiesta  con missiva prot. n. 2447/urb. dell'Amministrazione
 provinciale di  Macerata,  del  31  ottobre  1992.  In  Muccia,  fino
 all'attualita'.
                            FATTO E DIRITTO
    1.  -  Con  decreto del 30 maggio 1994, il giudice per le indagini
 preliminari in sede ha disposto il rinvio a giudizio di Barboni Fabio
 e Braghetti Nicola, per rispondere  dei  reati  loro  rispettivamente
 ascritti.
    Nel   corso   del   dibattimento   e'   stata  acquisita  numerosa
 documentazione, sono state espletate le prove testimoniali  richieste
 e si e' proceduto all'esame degli imputati.
    L'attivita' istruttoria espletata in dibattimento ha consentito di
 accertare  che  il  Barboni,  in  qualita'  di  sindaco del comune di
 Muccia, incarico' il Braghetti,  vincitore  della  relativa  gara  di
 appalto,  di  eseguire i lavori di costruzione di una strada pedonale
 di collegamento fra l'abitato di Muccia ed il cimitero, ancorche' non
 fosse intervenuta la richiesta autorizzazione ai  sensi  dell'art.  7
 della legge n. 1497/1939, necessaria in quanto detta strada insisteva
 su  di  un  terreno distante meno di 150 m. dal fiume Chienti, e come
 tale sottoposto al vincolo di cui all'art. 82 del d.P.R. n. 616/1977,
 come modificato dall'art. 1 della legge n. 431/1985.
    Il Barboni ha motivato, in tutti gli atti del suo ufficio relativi
 alla costruzione dell'opera in questione, tale operato in base ad  un
 duplice   ordine   di  considerazioni:  in  primo  luogo  sulla  base
 dell'urgenza di realizzare una struttura viaria,  ancorche'  limitata
 al  traffico dei pedoni ed ai funerali, di collegamento fra l'abitato
 di Muccia ed il  cimitero  alternativa  alla  s.s.  77,  che  per  le
 caratteristiche oggettive del tratto interessato (scarsa visibilita',
 trattandosi   di  percorso  prevalentemente  curvilineo)  esponeva  i
 frequentatori del cimitero  (soprattutto  persone  anziane)  a  gravi
 rischi per la propria incolumita', come alcuni episodi avevano allora
 evidenziato;  in  secondo  luogo, in considerazione della conformita'
 dell'opera da realizzarsi alla disciplina paesaggistica,  atteso  che
 il   vincolo   assoluto   di  inedificabilita'  stabilito  dal  piano
 paesistico ambientale regionale per i territori ricompresi  entro  la
 distanza  di m 100 dalle rive dei fiumi doveva ritenersi inoperante -
 con conseguente applicazione del  normale  regime  autorizzatorio  ex
 art.  7  della  legge  n.  1497/1939  altrimenti previsto per il solo
 tratto che va dai 100 ai 150 m dalla riva del fiume - in quanto,  per
 effetto  dell'art. 60, n. 2), delle N.T.A. di detto piano, l'indicata
 disciplina pianificatoria non trovava applicazione per le opere rela-
 tive ad "interventi per la salvaguardia della pubblica incolumita'".
    Entrambi  i  profili  surriportati  hanno  costituito  oggetto  di
 accertamento dibattimentale, con esiti positivi.
    Quanto  al  primo punto, e' emersa la necessita' della costruzione
 dell'opera de  qua  al  fine  di  evitare  il  verificarsi  di  gravi
 incidenti   a  pedoni  non  solo  possibili  ma  piuttosto  altamente
 probabili, considerato lo stato dei luoghi.
    Quanto al secondo aspetto,  e'  stato  accertato  che  l'autorita'
 provinciale,  competente  al  rilascio della autorizzazione ex art. 7
 della legge  n.  1497/1939,  ha  dapprima  iniziato  il  procedimento
 sanzionatorio previsto dall'art. 15 della stessa legge, disponendo la
 riduzione in pristino dei luoghi; e successivamente, preso atto delle
 ragioni  del  comune  ed  accertata  in  concreto  la  compatibilita'
 dell'opera  con  i  valori  paesaggistici  tutelati,  ha  revocato  i
 precedenti provvedimenti emanando la richiesta autorizzazione.
    Tuttavia,  pur  avendo  accertato  questo  giudicante  che l'opera
 realizzata   -   ancorche'   eseguita   nelle   more   del   rilascio
 dell'autorizzazione  paesaggistica  - non contrasta con la disciplina
 degli interventi in aree  paesaggisticamente  vincolate,  rispettando
 l'integrita'  del  bene  tutelato e dei valori espressi dall'indicata
 disciplina, cionondimeno gli imputati dovrebbero esser condannati per
 il reato loro ascritto al capo a).
    La norma incriminatrice contestata infatti,  l'art.  1-sexies  del
 d.-l.  27  giugno 1985, n. 312 (convertito nella legge 8 agosto 1985,
 n. 431), nell'interpretazione che di essa  da'  il  diritto  vivente,
 colpisce con le sanzioni penali previste dall'art.  20 della legge n.
 47/1985  la  violazione  delle disposizioni introdotte dalla legge n.
 431/1985, indipendentemente dalla circostanza  che,  nell'ipotesi  in
 cui  l'opera  eseguita  non  sia  stata  preventivamente autorizzata,
 l'autorizzazione - e con essa  l'accertamento  della  inesistenza  di
 qualsivoglia  minaccia  all'integrita' del bene tutelato - intervenga
 successivamente.
    Tale e' infatti la conclusione ricavabile  dalla  norma  in  esame
 alla stregua del c.d. diritto vivente:
      "la   legge   n.  431  del  1985  ha  dettato  un  complesso  di
 disposizioni particolarmente restrittive, direttia a tutelare in modo
 rigoroso  non  soltanto  l'aspetto  paesistico  del  territorio,   in
 coincidenza   con  l'interesse  garantito  dalla  Carta  fondamentale
 all'art. 9,  ma  l'intero  assetto  ambientale,  sia  pure  sotto  il
 prevalente  profilo  de  quo"  (Corte  di  cassazione,  Sez.  III,  5
 maggio-11 giugno 1992, Ferrero);
     "il reato di cui all'art. 1-sexies  ha  carattere  formale  e  di
 pericolo" (Cass., 3 gennaio 1991, Francucci).
      "In  questa  prospettiva  la costruzione del reato di violazione
 della legge de qua (...) prescinde completamente dall'accertamento di
 un reale danno al tessuto preesistente. (...) In siffatto  quadro  la
 sopravvenienza   dell'atto   da'  luogo  ad  una  sanatoria  soltanto
 amministrativa e non anche penale. Questa  interpretazione  ha  anche
 una  sua  coerenza  coincidente  con  la  ratio della legge. Si vuole
 stimolare il cittadino  al  rispetto  dell'ambiente  e  delle  regole
 all'uopo  predisposte,  inducendolo  a  far  transitare ogni sua piu'
 rilevante iniziativa attraverso il vaglio dell'autorita'  competente"
 (Cass., 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero, cit.).
    Ad  abundantiam,  il  legislatore  non ha espressamente attribuito
 efficacia  estintiva  del  reato  al   provvedimento   amministrativo
 favorevole  sopravvenuto,  a differenza di quanto ha fatto in materia
 urbanistica  con  l'art.  22  della  legge  n.  47/1985,   e   questo
 costituirebbe  il  chiaro  indice  di una contraria voluntas legis in
 materia paesaggistica (ID.).
    2.  -  La  legittimita'  costituzionale  di  questa  disposizione,
 nell'interpretazione  ora  riferitane,  e' stata sottoposta al vaglio
 della Corte costituzionale in piu'  occasioni  e  con  riferimento  a
 diversi  profili, onde appare opportuno - oltreche' metodologicamente
 doveroso - ripercorrerne brevemente la vicenda.  L'ordinanza  n.  431
 del  1991,  affrontando il problema della difformita' del trattamento
 sanzionatorio delle diverse, possibili violazioni della disciplina di
 tutela  del  paesaggio  (nel  senso  che  l'art.   1-sexies   sarebbe
 applicabile soltanto alle violazioni relative ai beni individuati per
 categorie  astratte  dalla  stessa  legge  n. 431/1985, e non anche a
 quelle relative a beni la cui rilevanza  paesaggistica  e'  stata  in
 concreto  accertata  dall'autorita'  amministrativa come previsto dal
 sistema  introdotto  dalla  legge  n.  1497/1939),  ha   giustificato
 l'indicata  difformita'  sulla base della considerazione che la legge
 n.  431/1985  ha  introdotto  in  regime  di   tutela   paesaggistica
 completamente  diverso - quanto ai criteri di individuazione dei beni
 tutelati ed alle caratteristiche della tutela  -  rispetto  a  quello
 stabilito   dalla   legge  n.  1497/1939,  per  cui,  trattandosi  di
 "violazione  operanti  su  piani  diversi",  ben  si  giustifica   la
 difformita' del trattamento sanzionatorio.
    Peraltro   l'ordinanza   in  esame,  pur  affermando  la  radicale
 diversita' del nuovo regime di tutela sotto il profilo dei meccanismi
 di individuazione dei beni tutelati  ex  art.  9  Cost.,  non  si  e'
 discostata, quanto al fondamento costituzionale di detta tutela ed ai
 conseguenti   criteri   valutativi   che  consentono  al  legislatore
 ordinario  di  vincolare  questo  o  quel  bene,   dalla   precedente
 giurisprudenza costituzionale in materia: l'esplicito riconoscimento,
 operato mediante rinvio alla precedente sentenza n. 151 del 1986, del
 "valore  estetico-culturale"  quale  fondamento  costituzionale della
 tutela del paesaggio, e' perfettamente  coerente  con  l'impostazione
 culturale  fatta  propria  dalla  Corte  costituzionale in materia di
 individuazione dei caratteri differenziati delle tutele, ad un  tempo
 differenziato   ed   interferenti,  insistenti  sul  medesimo  ambito
 territoriale, nel senso che tra i possibili regimi di  tutela  quello
 che  trova  il suo fondamento nell'art. 9, secondo comma, della Cost.
 si  caratterizza  per  il  fatto  di  avere  ad   oggetto   la   cura
 dell'interesse estetico-culturale (cosi' Corte cost., 26 aprile 1971,
 n.  79; 6 luglio 1972 n. 142; e, in particolare, 29 dicembre 1982, n.
 239, dove l'affermazione che la Costituzione "accomuna la tutela  del
 paesaggio a quella del patrimonio storico ed artistico e detta il suo
 precetto,  come  gia'  rilevato  da  parte della dottrina, ai fini di
 proteggere e migliorare i beni  (culturali)  suddetti  e  contribuire
 cosi' all'elevazione intellettuale della collettivita'").
    Questa ricostruzione, pertanto, prende posizione nel dibattito fra
 le contrapposte tesi tendenti rispettivamente a qualificare come beni
 paesaggisticamente   rilevanti   -   e   come   tali   legittimamente
 assoggettabili alla relativa disciplina  -  soltanto  i  c.d.  quadri
 naturali,  ovvero a ritenere imprescindibile l'azione della comunita'
 nella definizione di una nozione di paesaggio individuata nella  c.d.
 forma  del  paese:  il  superamento  di queste posizioni, mediante la
 valorizzazione del profilo dell'interesse posto  a  fondamento  della
 tutela,  consente  di  affermare che il dato materiale costituito dal
 suolo assume rilevanza paesaggistica (e diviene  pertanto  meritevole
 dell'apposita tutela) a seguito di un giudizio di carattere estetico-
 culturale,  che nel sistema della legge n. 1497/1939 era rimesso alla
 competente autorita' amministrativa.
    Nella successiva sentenza n. 67 del 1992, la Corte  costituzionale
 precisa ulteriormente tale profilo: il criterio di individuazione dei
 beni  paesaggisticamente  rilevanti introdotto dalla legge n. 431 del
 1985,  e  basato  non  sull'effettivo  accertamento  della  rilevanza
 estetico-culturale  ma sulla individuazione di una serie di categorie
 di beni che in  via  astratta  e  presuntiva  dovrebbero  avere  tali
 caratteri  (che ne giustificano l'assoggettamento al regime di tutela
 siccome previsto dall'art. 9  della  Cost.),  ha  il  suo  necessario
 presupposto    nel    completamento   della   disciplina   ad   opera
 dell'attivita' di pianificazione demandata alle regioni,  sulla  base
 della quale "possono essere disposte discipline differenziate".
    Questa  impostazione  e'  stata poi coerentemente sviluppata nelle
 successive pronunzie  relative  alla  disposizione  in  esame.  Nella
 sentenza  n.  122  del 1993, con riferimento al fatto che il richiamo
 operato quoad poenam  dall'art.  1-sexies  della  legge  n.  431/1985
 all'art.  20  della  legge n. 47/1985 non consente di individuare con
 esatteza quale delle sanzioni contemplate dalla norma  richiamata  si
 applichi  alla  violazione  del precetto, si e' affermato che in ogni
 caso "l'accentuata severita'  di  trattamento,  che  puo'  aversi  in
 taluni  casi  per  effetto  del  carattere  non  differenziato  della
 disciplina, trova giustificazione  nella  entita'  sociale  dei  beni
 protetti  e  nel  carattere  generale,  immediato  e interinale della
 tutela che la legge ha inteso apprestare".
    Nella  sentenza  n.  269  del  1993,  che  affronta   direttamente
 l'ipotesi    di    costruzione   in   zona   vincolata   in   assenza
 dell'autorizzazione paesaggistica poi sopravvenuta, nell'estendere  -
 peraltro con motivazione assolutamente tautologica - le ragioni poste
 a   fondamento   delle   precedenti   dichiarazioni  di  infondatezza
 all'indicata fattispecie, si afferma che in dette pronunzie la  Corte
 "non   ha   mancato   di   precisare   di  riconoscere  congruita'  e
 ragionevolezza alla disciplina  anche  in  relazione  al  suo  palese
 carattere  interinale.  Non  puo'  negarsi infatti che l'applicazione
 della normativa sulla protezione ambientale abbia posto  in  evidenza
 alcuni problemi, segnalando in particolare l'opportunita' di definire
 le  previsioni  sanzionatorie  in modo che consentano di discriminare
 meglio il trattamento punitivo in relazione alla  effettiva  gravita'
 dei  fatti.  E'  dunque  auspicabile  che,  tenuto  conto  dell'ormai
 prolungata vigenza della disciplina, il legislatore  provveda  ad  un
 adeguato  riesame  della stessa alla luce delle questioni che via via
 si sono andate ponendo".
    Orbene,   non   essendo   intervenuto  nel  frattempo  l'auspicato
 intervento legislativo, e permanendo pertanto gli indicati profili di
 incongruita' della normativa in esame, sono venute meno, ad avviso di
 questo giudicante, le ragioni poste a fondamento della giurisprudenza
 costituzionale fin qui riportata.
    3. - Il primo dei profili di incostituzionalita'  e'  relativo  al
 principio  di  legalita' di cui all'art. 25, comma 2, della Cost., ed
 in  particolare  alla  sua  proiezione  in  termini  di   sufficiente
 determinatezza  della fattispecie penale, con riferimento al richiamo
 operato quoad poenam dall'art. 1-sexies all'art. 20  della  legge  n.
 47/1985.
    Nell'escludere  il  contrasto  con  tale  principio della norma in
 esame, la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 122  del
 1993,  ha  motivato  sulla  base del richiamo al diritto vivente, con
 riferimento al fatto che il carattere univoco  della  giurisprudenza,
 nel  senso  di  ritenere  applicabile  la sanzione di cui all'art. 20
 lett.  c),  "fuga  ogni  preoccupazione  di   incertezza   circa   le
 conseguenze penali della violazione della norma impugnata".
    L'affermazione  surriportata  non  ha  evidentemente  tenuto conto
 della sentenza 5 maggio-11 giugno 1992 della terza sez. penale  della
 Corte  di  cassazione  (ric.  Ferrero),  la quale ha affermato che il
 richiamo de quo non riguarda la sola lettera c) ma tutte  le  ipotesi
 contemplate  nell'art.  20  della  legge  n.  47/1985,  giacche'  "il
 legislatore non ha voluto inserire alcun puntuale richiamo alle varie
 lettere  dell'art.   20,   lasciando   tale   compito   all'attivita'
 interpretativa del giudice".
    La conseguenza e' che giudici diversi potrebbero applicare a fatti
 diversi  le  stesse  sanzioni  ed agli stessi fatti sanzioni diverse,
 unica essendo la norma penale incriminatrice contenente il  precetto,
 ma  varie  (e variamente interpretabili: la decisione citata ne e' un
 esempio) le sanzioni.
    4. - Il secondo profilo attiene al contrasto fra  la  disposizione
 in esame e l'art. 9, secondo comma, della Costituzione.
    La  sentenza n. 239 del 1982 della Corte costituzionale, di cui si
 e' riportato un passo significativo, aveva con chiarezza  evidenziato
 come   il   fondamento   costituzionale  della  tutela  paesaggistica
 implicasse la legittimita' esclusivamente di quei  regimi  di  tutela
 che  di  tale fondamento estetico-culturale tenessero conto, o meglio
 che ad esso preordinassero il loro contenuto ed il loro scopo.
    Ora, non puo' dirsi che l'art. 1-sexies della legge  n.  431/1985,
 nel  colpire  con  la sanzione penale anche gli interventi di cui sia
 stata accertata - con autorizzazione sopravvenuta - la compatibilita'
 con i valori estetico-culturali del bene su cui  insistono,  persegua
 una finalita' di tipo paesaggistico, nel senso ora visto.
    L'equivoco di fondo che consente la sopravvivenza di questa palese
 violazione   della   Carta   fondamentale  nasce  forse  per  effetto
 dell'aggiunta  dell'aggettivo  ambientale  alla  nozione  di   tutela
 paesaggistica:  il  metodo  generalizzante utilizzato dal legislatore
 della  legge  n.  431  per  individuare  i  beni   paesaggisticamente
 rilevanti  avrebbe  avuto  l'effetto, secondo tale prospettazione, di
 mutare  i  connotati  (e  la  natura)  della  tutela  in   questione,
 consentendo  l'utilizzazione  dei  relativi  strumenti (anche) per la
 protezione di una non meglio definita nozione di ambiente.
    Questa conclusione non puo' essere accolta.
    In  primo  luogo  perche'  la  nozione di ambiente, da un punto di
 vista giuridico, ha  valore  puramente  convenzionale,  indicando  il
 fenomeno  della  compresenza  in un medesimo spazio fisico di diversi
 elementi materiali, a  ciascuno  dei  quali  corrisponde  una  tutela
 giuridica  differenziata  in  ragione  non  gia'  (o  non solo) delle
 caratteristiche ontologiche di ogni singolo  elemento,  ma  piuttosto
 del   profilo   dell'interesse   ad   esso   afferente  (la  riferita
 impostazione della dottrina e' accolta da Corte  cost.,  n.  239  del
 1982).
    In  secondo luogo, perche' mai una legge ordinaria che modificasse
 i  criteri  di  individuazione  dei  beni  tutelati  potrebbe  mutare
 l'oggetto della tutela siccome individuato dalla Costituzione.
    L'accertamento  del  carattere  estetico-culturale  puo', in altre
 parole, essere condotto in tutte le forme che la discrezionalita' del
 legislatore ritenga di individuare, ma deve pure  esserci,  affinche'
 siano   legittimamente  esercitate  le  potesta'  -  compresa  quella
 punitiva - finalizzate (soltanto) alla tutela di tale valore.
    L'estensione, operata dal legislatore ordinario sul presupposto di
 una temporaneita' rimasta ormai lettera  morta,  degli  strumenti  di
 tutela  paesaggistica  a beni (e ad interventi su beni) privi di tale
 carattere, e per finalita' ad esso estranee  (il  controllo  dell'uso
 del  territorio,  o di parti di esso), non autorizza ad affermare una
 pretesa evoluzione della materia del paesaggio verso gli  incerti  (e
 in  realta' inesistenti) confini della nozione giuridica di ambiente,
 implicando semmai - ove si ritenesse, appunto, che  i  vincoli  e  le
 sanzioni    dettati   dalla   disciplina   paesaggistica   colpiscano
 fattispecie in cui  difetta,  rispettivamente,  il  pregio  estetico-
 culturale    ovvero   la   lesione   di   esso   -   l'illegittimita'
 costituzionale, per violazione  dell'art.  9,  secondo  comma,  della
 Costituzione, delle relative disposizioni della legge ordinaria.
    5.  -  Il  profilo  di  illegittimita' costituzionale ora indicato
 determina una importante conseguenza.
    Chiarita la natura del bene tutelato, della norma  incriminatrice,
 che  non  e'  dunque  l'integrita'  del tessuto ambientale (tutelata,
 nelle sue diverse componenti, dalla disciplina urbanistica, da quella
 sull'inquinamento, ecc.)  ma  il  patrimonio  estetico-culturale  del
 paese,   occorre   verificare  le  implicazioni  della  ricostruzione
 giurisprudenziale della fattispecie criminosa in  esame  nei  termini
 descritti dalle richiamate decisioni della Corte di cassazione.
    Non  puo' non rilevarsi una irragionevolezza della disposizione in
 esame, nella parte  in  cui  sottopone  alla  medesima  sanzione  sia
 l'ipotesi  di esecuzione di un'opera priva di autorizzazione (perche'
 non richiesta o per l'essere l'opera medesima non  assentibile),  sia
 quella in cui l'opera eseguita sia stata successivamente autorizzata.
    La  precedente  pronunzia  di rigetto non presenta, sul punto, una
 motivazione particolarmente approfondita.
    La giurisprudenza della Corte di cassazione, citata allega  invece
 motivazioni  del  tutto  formalistiche,  fondate  su un parallelo fra
 autorizzazione  paesaggistica  e  concessione   edilizia   che   pare
 improponibile,  attesa la profonda differenza strutturale dei vincoli
 che ciascuno di tali provvedimenti e'  chiamato  a  rimuovere  (Corte
 costituzionale,   sentenza  n.  56  del  1968),  e  prima  ancora  la
 diversita' delle materie - e  dei  relativi  princi'pi  -  cui  detti
 provvedimenti  afferiscono ("diversita' di scopi, di presupposti e di
 oggetto"  evidenziata  peraltro  nella sentenza n. 269 del 1993 della
 Corte costituzionale).
    La sopravvenienza dell'autorizzazione, se non e' tale da escludere
 la messa in pericolo del bene tutelato (sia pure con tutte le riserve
 fin qui espresse in ordine alla sussistenza di questo),  tuttavia  ne
 esclude certamente la lesione.
    Ne  consegue  che il trattamento sanzionatorio risulta il medesimo
 pur in presenza di una cosi' rilevante difformita' delle modalita' di
 aggressione al bene tutelato.
    Se cio' sia ancora giustificabile in considerazione  dell'asserito
 carattere   temporaneo   della   disciplina,   ovvero  della  fiducia
 nell'intervento riequilibratore del legislatore, e'  questione  ormai
 di agevole soluzione.
    6.  - La configurazione del reato in esame come reato di pericolo,
 e  precisamente  di  pericolo   astratto   o   presunto,   anche   in
 considerazione   delle   argomentazioni   fin   qui   sviluppate  con
 riferimento alle difficolta' di  individuazione  del  bene  tutelato,
 pone  un  problema  di  compatibilita'  con il pricipio di necessaria
 offensivita' del reato, desumibile dagli artt.  25,  27  e  13  della
 Costituzione.
    La  teorica dell'offensivita' del reato si fonda, come e' noto, su
 diversi percorsi ermeneutici.
    Da un lato si ritiene che gli artt. 25 e  27  della  Costituzione,
 nel  prevedere  come  conseguenze della violazione della legge penale
 una duplice tipologia di sanzioni, in funzione del tipo di violazione
 (nel senso di escludere l'applicazione della pena ai  fatti  di  mera
 disubbidienza), impedirebbero la punibilita' (ma non l'irrogazione di
 misure di sicurezza) dei fatti inoffensivi.
    D'altro  canto  si  sostiene  che  il  sacrificio  della  liberta'
 personale, garantita  dall'art.  13  della  Costituzione,  non  possa
 ammettersi se non per l'esigenza di tutelare un concreto interesse.
    Quale  che sia l'impostazione preferibile, la dottrina concorda su
 di un punto: il principio di necessaria offensivita' del  reato  puo'
 subire deroghe, laddove sia necessario anticipare la tutela sino alla
 soglia dell'astratta pericolosita' in considerazione della natura del
 bene,  salvo  pero' a recuperare sul piano della tipicita' il deficit
 di lesivita' delle condotte incriminate.
    Al contrario la normativa in esame si rivela estremamente  carente
 sotto  questo  profilo,  sia  con  riferimento  al  precetto che alla
 sanzione.
    Il rischio e'  che  la  limitazione  del  bene  inviolabile  della
 liberta'  personale non avvenga - in questa materia - in un'ottica di
 bilanciamento  degli  interessi   costituzionalmente   protetti,   ma
 piuttosto  nella prospettiva di una funzione promozionale del diritto
 penale, evocata  dalla  giurisprudenza  della  Cassazione  citata  in
 precedenza,  al  punto  che, al di la' dell'affermazione o meno della
 sua incostituzionalita', vi e' da chiedersi quanto tale regime sia di
 effettivo giovamento alla tutela del bene protetto.