IL TRIBUNALE Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 25/1994 a carico di: 1) Barboni Fabio, nato a Muccia l'8 aprile 1948, residente in Ancona, via Cadore n. 12; 2) Braghetti Nicola, nato a Camerino il 3 dicembre 1950, residente a Muccia, contrada Varano, n. 8; imputati entrambi: a) della contravvenzione p. e p. dagli artt. 110, 1-sexies della legge n. 431/1985 e 20 lettera C) della legge n. 47/1985, poiche' in concorso fra loro (il primo quale sindaco committente, il secondo quale assuntore delle opere) realizzavano una strada di collegamento (Muccia centro abitato-cimitero) in zona paesaggisticamente vincolata, senza essere muniti di autorizzazione paesaggistica. In Muccia, nel settembre 1992; b) della contravvenzione p. e p. dagli artt. 110 del c.p. e 20, lettera C) della legge n. 47/1985, poiche', nella medesima qualifica di cui sopra, realizzavano quell'opera in mancanza di concessione edilizia. Stesso luogo e tempo; c) della contravvenzione p. e p. dall'art. 734 del c.p. e 110 del c.p., poiche', mediante l'opera di cui sopra, alteravano le belleze naturali di quei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'autorita'. Stesso luogo e tempo; d) della contravvenzione p. e p. dall'art. 20, lettera A) della legge n. 47/1985, poiche', nella medesima qualifica di cui sopra e in quella medesima attivita', omettevano l'apposizione della recinzione e del prescritto cartello. Stesso luogo e tempo. Barboni Fabio: del delitto p. e p. dall'art. 328 del c.p., secondo comma, poiche', quale sindaco di Muccia, indebitamente rifiutava un atto del suo ufficio (rimessa in pristino dei luoghi), pur avendone avuta richiesta con missiva prot. n. 2447/urb. dell'Amministrazione provinciale di Macerata, del 31 ottobre 1992. In Muccia, fino all'attualita'. FATTO E DIRITTO 1. - Con decreto del 30 maggio 1994, il giudice per le indagini preliminari in sede ha disposto il rinvio a giudizio di Barboni Fabio e Braghetti Nicola, per rispondere dei reati loro rispettivamente ascritti. Nel corso del dibattimento e' stata acquisita numerosa documentazione, sono state espletate le prove testimoniali richieste e si e' proceduto all'esame degli imputati. L'attivita' istruttoria espletata in dibattimento ha consentito di accertare che il Barboni, in qualita' di sindaco del comune di Muccia, incarico' il Braghetti, vincitore della relativa gara di appalto, di eseguire i lavori di costruzione di una strada pedonale di collegamento fra l'abitato di Muccia ed il cimitero, ancorche' non fosse intervenuta la richiesta autorizzazione ai sensi dell'art. 7 della legge n. 1497/1939, necessaria in quanto detta strada insisteva su di un terreno distante meno di 150 m. dal fiume Chienti, e come tale sottoposto al vincolo di cui all'art. 82 del d.P.R. n. 616/1977, come modificato dall'art. 1 della legge n. 431/1985. Il Barboni ha motivato, in tutti gli atti del suo ufficio relativi alla costruzione dell'opera in questione, tale operato in base ad un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo sulla base dell'urgenza di realizzare una struttura viaria, ancorche' limitata al traffico dei pedoni ed ai funerali, di collegamento fra l'abitato di Muccia ed il cimitero alternativa alla s.s. 77, che per le caratteristiche oggettive del tratto interessato (scarsa visibilita', trattandosi di percorso prevalentemente curvilineo) esponeva i frequentatori del cimitero (soprattutto persone anziane) a gravi rischi per la propria incolumita', come alcuni episodi avevano allora evidenziato; in secondo luogo, in considerazione della conformita' dell'opera da realizzarsi alla disciplina paesaggistica, atteso che il vincolo assoluto di inedificabilita' stabilito dal piano paesistico ambientale regionale per i territori ricompresi entro la distanza di m 100 dalle rive dei fiumi doveva ritenersi inoperante - con conseguente applicazione del normale regime autorizzatorio ex art. 7 della legge n. 1497/1939 altrimenti previsto per il solo tratto che va dai 100 ai 150 m dalla riva del fiume - in quanto, per effetto dell'art. 60, n. 2), delle N.T.A. di detto piano, l'indicata disciplina pianificatoria non trovava applicazione per le opere rela- tive ad "interventi per la salvaguardia della pubblica incolumita'". Entrambi i profili surriportati hanno costituito oggetto di accertamento dibattimentale, con esiti positivi. Quanto al primo punto, e' emersa la necessita' della costruzione dell'opera de qua al fine di evitare il verificarsi di gravi incidenti a pedoni non solo possibili ma piuttosto altamente probabili, considerato lo stato dei luoghi. Quanto al secondo aspetto, e' stato accertato che l'autorita' provinciale, competente al rilascio della autorizzazione ex art. 7 della legge n. 1497/1939, ha dapprima iniziato il procedimento sanzionatorio previsto dall'art. 15 della stessa legge, disponendo la riduzione in pristino dei luoghi; e successivamente, preso atto delle ragioni del comune ed accertata in concreto la compatibilita' dell'opera con i valori paesaggistici tutelati, ha revocato i precedenti provvedimenti emanando la richiesta autorizzazione. Tuttavia, pur avendo accertato questo giudicante che l'opera realizzata - ancorche' eseguita nelle more del rilascio dell'autorizzazione paesaggistica - non contrasta con la disciplina degli interventi in aree paesaggisticamente vincolate, rispettando l'integrita' del bene tutelato e dei valori espressi dall'indicata disciplina, cionondimeno gli imputati dovrebbero esser condannati per il reato loro ascritto al capo a). La norma incriminatrice contestata infatti, l'art. 1-sexies del d.-l. 27 giugno 1985, n. 312 (convertito nella legge 8 agosto 1985, n. 431), nell'interpretazione che di essa da' il diritto vivente, colpisce con le sanzioni penali previste dall'art. 20 della legge n. 47/1985 la violazione delle disposizioni introdotte dalla legge n. 431/1985, indipendentemente dalla circostanza che, nell'ipotesi in cui l'opera eseguita non sia stata preventivamente autorizzata, l'autorizzazione - e con essa l'accertamento della inesistenza di qualsivoglia minaccia all'integrita' del bene tutelato - intervenga successivamente. Tale e' infatti la conclusione ricavabile dalla norma in esame alla stregua del c.d. diritto vivente: "la legge n. 431 del 1985 ha dettato un complesso di disposizioni particolarmente restrittive, direttia a tutelare in modo rigoroso non soltanto l'aspetto paesistico del territorio, in coincidenza con l'interesse garantito dalla Carta fondamentale all'art. 9, ma l'intero assetto ambientale, sia pure sotto il prevalente profilo de quo" (Corte di cassazione, Sez. III, 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero); "il reato di cui all'art. 1-sexies ha carattere formale e di pericolo" (Cass., 3 gennaio 1991, Francucci). "In questa prospettiva la costruzione del reato di violazione della legge de qua (...) prescinde completamente dall'accertamento di un reale danno al tessuto preesistente. (...) In siffatto quadro la sopravvenienza dell'atto da' luogo ad una sanatoria soltanto amministrativa e non anche penale. Questa interpretazione ha anche una sua coerenza coincidente con la ratio della legge. Si vuole stimolare il cittadino al rispetto dell'ambiente e delle regole all'uopo predisposte, inducendolo a far transitare ogni sua piu' rilevante iniziativa attraverso il vaglio dell'autorita' competente" (Cass., 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero, cit.). Ad abundantiam, il legislatore non ha espressamente attribuito efficacia estintiva del reato al provvedimento amministrativo favorevole sopravvenuto, a differenza di quanto ha fatto in materia urbanistica con l'art. 22 della legge n. 47/1985, e questo costituirebbe il chiaro indice di una contraria voluntas legis in materia paesaggistica (ID.). 2. - La legittimita' costituzionale di questa disposizione, nell'interpretazione ora riferitane, e' stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale in piu' occasioni e con riferimento a diversi profili, onde appare opportuno - oltreche' metodologicamente doveroso - ripercorrerne brevemente la vicenda. L'ordinanza n. 431 del 1991, affrontando il problema della difformita' del trattamento sanzionatorio delle diverse, possibili violazioni della disciplina di tutela del paesaggio (nel senso che l'art. 1-sexies sarebbe applicabile soltanto alle violazioni relative ai beni individuati per categorie astratte dalla stessa legge n. 431/1985, e non anche a quelle relative a beni la cui rilevanza paesaggistica e' stata in concreto accertata dall'autorita' amministrativa come previsto dal sistema introdotto dalla legge n. 1497/1939), ha giustificato l'indicata difformita' sulla base della considerazione che la legge n. 431/1985 ha introdotto in regime di tutela paesaggistica completamente diverso - quanto ai criteri di individuazione dei beni tutelati ed alle caratteristiche della tutela - rispetto a quello stabilito dalla legge n. 1497/1939, per cui, trattandosi di "violazione operanti su piani diversi", ben si giustifica la difformita' del trattamento sanzionatorio. Peraltro l'ordinanza in esame, pur affermando la radicale diversita' del nuovo regime di tutela sotto il profilo dei meccanismi di individuazione dei beni tutelati ex art. 9 Cost., non si e' discostata, quanto al fondamento costituzionale di detta tutela ed ai conseguenti criteri valutativi che consentono al legislatore ordinario di vincolare questo o quel bene, dalla precedente giurisprudenza costituzionale in materia: l'esplicito riconoscimento, operato mediante rinvio alla precedente sentenza n. 151 del 1986, del "valore estetico-culturale" quale fondamento costituzionale della tutela del paesaggio, e' perfettamente coerente con l'impostazione culturale fatta propria dalla Corte costituzionale in materia di individuazione dei caratteri differenziati delle tutele, ad un tempo differenziato ed interferenti, insistenti sul medesimo ambito territoriale, nel senso che tra i possibili regimi di tutela quello che trova il suo fondamento nell'art. 9, secondo comma, della Cost. si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto la cura dell'interesse estetico-culturale (cosi' Corte cost., 26 aprile 1971, n. 79; 6 luglio 1972 n. 142; e, in particolare, 29 dicembre 1982, n. 239, dove l'affermazione che la Costituzione "accomuna la tutela del paesaggio a quella del patrimonio storico ed artistico e detta il suo precetto, come gia' rilevato da parte della dottrina, ai fini di proteggere e migliorare i beni (culturali) suddetti e contribuire cosi' all'elevazione intellettuale della collettivita'"). Questa ricostruzione, pertanto, prende posizione nel dibattito fra le contrapposte tesi tendenti rispettivamente a qualificare come beni paesaggisticamente rilevanti - e come tali legittimamente assoggettabili alla relativa disciplina - soltanto i c.d. quadri naturali, ovvero a ritenere imprescindibile l'azione della comunita' nella definizione di una nozione di paesaggio individuata nella c.d. forma del paese: il superamento di queste posizioni, mediante la valorizzazione del profilo dell'interesse posto a fondamento della tutela, consente di affermare che il dato materiale costituito dal suolo assume rilevanza paesaggistica (e diviene pertanto meritevole dell'apposita tutela) a seguito di un giudizio di carattere estetico- culturale, che nel sistema della legge n. 1497/1939 era rimesso alla competente autorita' amministrativa. Nella successiva sentenza n. 67 del 1992, la Corte costituzionale precisa ulteriormente tale profilo: il criterio di individuazione dei beni paesaggisticamente rilevanti introdotto dalla legge n. 431 del 1985, e basato non sull'effettivo accertamento della rilevanza estetico-culturale ma sulla individuazione di una serie di categorie di beni che in via astratta e presuntiva dovrebbero avere tali caratteri (che ne giustificano l'assoggettamento al regime di tutela siccome previsto dall'art. 9 della Cost.), ha il suo necessario presupposto nel completamento della disciplina ad opera dell'attivita' di pianificazione demandata alle regioni, sulla base della quale "possono essere disposte discipline differenziate". Questa impostazione e' stata poi coerentemente sviluppata nelle successive pronunzie relative alla disposizione in esame. Nella sentenza n. 122 del 1993, con riferimento al fatto che il richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies della legge n. 431/1985 all'art. 20 della legge n. 47/1985 non consente di individuare con esatteza quale delle sanzioni contemplate dalla norma richiamata si applichi alla violazione del precetto, si e' affermato che in ogni caso "l'accentuata severita' di trattamento, che puo' aversi in taluni casi per effetto del carattere non differenziato della disciplina, trova giustificazione nella entita' sociale dei beni protetti e nel carattere generale, immediato e interinale della tutela che la legge ha inteso apprestare". Nella sentenza n. 269 del 1993, che affronta direttamente l'ipotesi di costruzione in zona vincolata in assenza dell'autorizzazione paesaggistica poi sopravvenuta, nell'estendere - peraltro con motivazione assolutamente tautologica - le ragioni poste a fondamento delle precedenti dichiarazioni di infondatezza all'indicata fattispecie, si afferma che in dette pronunzie la Corte "non ha mancato di precisare di riconoscere congruita' e ragionevolezza alla disciplina anche in relazione al suo palese carattere interinale. Non puo' negarsi infatti che l'applicazione della normativa sulla protezione ambientale abbia posto in evidenza alcuni problemi, segnalando in particolare l'opportunita' di definire le previsioni sanzionatorie in modo che consentano di discriminare meglio il trattamento punitivo in relazione alla effettiva gravita' dei fatti. E' dunque auspicabile che, tenuto conto dell'ormai prolungata vigenza della disciplina, il legislatore provveda ad un adeguato riesame della stessa alla luce delle questioni che via via si sono andate ponendo". Orbene, non essendo intervenuto nel frattempo l'auspicato intervento legislativo, e permanendo pertanto gli indicati profili di incongruita' della normativa in esame, sono venute meno, ad avviso di questo giudicante, le ragioni poste a fondamento della giurisprudenza costituzionale fin qui riportata. 3. - Il primo dei profili di incostituzionalita' e' relativo al principio di legalita' di cui all'art. 25, comma 2, della Cost., ed in particolare alla sua proiezione in termini di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, con riferimento al richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies all'art. 20 della legge n. 47/1985. Nell'escludere il contrasto con tale principio della norma in esame, la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 122 del 1993, ha motivato sulla base del richiamo al diritto vivente, con riferimento al fatto che il carattere univoco della giurisprudenza, nel senso di ritenere applicabile la sanzione di cui all'art. 20 lett. c), "fuga ogni preoccupazione di incertezza circa le conseguenze penali della violazione della norma impugnata". L'affermazione surriportata non ha evidentemente tenuto conto della sentenza 5 maggio-11 giugno 1992 della terza sez. penale della Corte di cassazione (ric. Ferrero), la quale ha affermato che il richiamo de quo non riguarda la sola lettera c) ma tutte le ipotesi contemplate nell'art. 20 della legge n. 47/1985, giacche' "il legislatore non ha voluto inserire alcun puntuale richiamo alle varie lettere dell'art. 20, lasciando tale compito all'attivita' interpretativa del giudice". La conseguenza e' che giudici diversi potrebbero applicare a fatti diversi le stesse sanzioni ed agli stessi fatti sanzioni diverse, unica essendo la norma penale incriminatrice contenente il precetto, ma varie (e variamente interpretabili: la decisione citata ne e' un esempio) le sanzioni. 4. - Il secondo profilo attiene al contrasto fra la disposizione in esame e l'art. 9, secondo comma, della Costituzione. La sentenza n. 239 del 1982 della Corte costituzionale, di cui si e' riportato un passo significativo, aveva con chiarezza evidenziato come il fondamento costituzionale della tutela paesaggistica implicasse la legittimita' esclusivamente di quei regimi di tutela che di tale fondamento estetico-culturale tenessero conto, o meglio che ad esso preordinassero il loro contenuto ed il loro scopo. Ora, non puo' dirsi che l'art. 1-sexies della legge n. 431/1985, nel colpire con la sanzione penale anche gli interventi di cui sia stata accertata - con autorizzazione sopravvenuta - la compatibilita' con i valori estetico-culturali del bene su cui insistono, persegua una finalita' di tipo paesaggistico, nel senso ora visto. L'equivoco di fondo che consente la sopravvivenza di questa palese violazione della Carta fondamentale nasce forse per effetto dell'aggiunta dell'aggettivo ambientale alla nozione di tutela paesaggistica: il metodo generalizzante utilizzato dal legislatore della legge n. 431 per individuare i beni paesaggisticamente rilevanti avrebbe avuto l'effetto, secondo tale prospettazione, di mutare i connotati (e la natura) della tutela in questione, consentendo l'utilizzazione dei relativi strumenti (anche) per la protezione di una non meglio definita nozione di ambiente. Questa conclusione non puo' essere accolta. In primo luogo perche' la nozione di ambiente, da un punto di vista giuridico, ha valore puramente convenzionale, indicando il fenomeno della compresenza in un medesimo spazio fisico di diversi elementi materiali, a ciascuno dei quali corrisponde una tutela giuridica differenziata in ragione non gia' (o non solo) delle caratteristiche ontologiche di ogni singolo elemento, ma piuttosto del profilo dell'interesse ad esso afferente (la riferita impostazione della dottrina e' accolta da Corte cost., n. 239 del 1982). In secondo luogo, perche' mai una legge ordinaria che modificasse i criteri di individuazione dei beni tutelati potrebbe mutare l'oggetto della tutela siccome individuato dalla Costituzione. L'accertamento del carattere estetico-culturale puo', in altre parole, essere condotto in tutte le forme che la discrezionalita' del legislatore ritenga di individuare, ma deve pure esserci, affinche' siano legittimamente esercitate le potesta' - compresa quella punitiva - finalizzate (soltanto) alla tutela di tale valore. L'estensione, operata dal legislatore ordinario sul presupposto di una temporaneita' rimasta ormai lettera morta, degli strumenti di tutela paesaggistica a beni (e ad interventi su beni) privi di tale carattere, e per finalita' ad esso estranee (il controllo dell'uso del territorio, o di parti di esso), non autorizza ad affermare una pretesa evoluzione della materia del paesaggio verso gli incerti (e in realta' inesistenti) confini della nozione giuridica di ambiente, implicando semmai - ove si ritenesse, appunto, che i vincoli e le sanzioni dettati dalla disciplina paesaggistica colpiscano fattispecie in cui difetta, rispettivamente, il pregio estetico- culturale ovvero la lesione di esso - l'illegittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 9, secondo comma, della Costituzione, delle relative disposizioni della legge ordinaria. 5. - Il profilo di illegittimita' costituzionale ora indicato determina una importante conseguenza. Chiarita la natura del bene tutelato, della norma incriminatrice, che non e' dunque l'integrita' del tessuto ambientale (tutelata, nelle sue diverse componenti, dalla disciplina urbanistica, da quella sull'inquinamento, ecc.) ma il patrimonio estetico-culturale del paese, occorre verificare le implicazioni della ricostruzione giurisprudenziale della fattispecie criminosa in esame nei termini descritti dalle richiamate decisioni della Corte di cassazione. Non puo' non rilevarsi una irragionevolezza della disposizione in esame, nella parte in cui sottopone alla medesima sanzione sia l'ipotesi di esecuzione di un'opera priva di autorizzazione (perche' non richiesta o per l'essere l'opera medesima non assentibile), sia quella in cui l'opera eseguita sia stata successivamente autorizzata. La precedente pronunzia di rigetto non presenta, sul punto, una motivazione particolarmente approfondita. La giurisprudenza della Corte di cassazione, citata allega invece motivazioni del tutto formalistiche, fondate su un parallelo fra autorizzazione paesaggistica e concessione edilizia che pare improponibile, attesa la profonda differenza strutturale dei vincoli che ciascuno di tali provvedimenti e' chiamato a rimuovere (Corte costituzionale, sentenza n. 56 del 1968), e prima ancora la diversita' delle materie - e dei relativi princi'pi - cui detti provvedimenti afferiscono ("diversita' di scopi, di presupposti e di oggetto" evidenziata peraltro nella sentenza n. 269 del 1993 della Corte costituzionale). La sopravvenienza dell'autorizzazione, se non e' tale da escludere la messa in pericolo del bene tutelato (sia pure con tutte le riserve fin qui espresse in ordine alla sussistenza di questo), tuttavia ne esclude certamente la lesione. Ne consegue che il trattamento sanzionatorio risulta il medesimo pur in presenza di una cosi' rilevante difformita' delle modalita' di aggressione al bene tutelato. Se cio' sia ancora giustificabile in considerazione dell'asserito carattere temporaneo della disciplina, ovvero della fiducia nell'intervento riequilibratore del legislatore, e' questione ormai di agevole soluzione. 6. - La configurazione del reato in esame come reato di pericolo, e precisamente di pericolo astratto o presunto, anche in considerazione delle argomentazioni fin qui sviluppate con riferimento alle difficolta' di individuazione del bene tutelato, pone un problema di compatibilita' con il pricipio di necessaria offensivita' del reato, desumibile dagli artt. 25, 27 e 13 della Costituzione. La teorica dell'offensivita' del reato si fonda, come e' noto, su diversi percorsi ermeneutici. Da un lato si ritiene che gli artt. 25 e 27 della Costituzione, nel prevedere come conseguenze della violazione della legge penale una duplice tipologia di sanzioni, in funzione del tipo di violazione (nel senso di escludere l'applicazione della pena ai fatti di mera disubbidienza), impedirebbero la punibilita' (ma non l'irrogazione di misure di sicurezza) dei fatti inoffensivi. D'altro canto si sostiene che il sacrificio della liberta' personale, garantita dall'art. 13 della Costituzione, non possa ammettersi se non per l'esigenza di tutelare un concreto interesse. Quale che sia l'impostazione preferibile, la dottrina concorda su di un punto: il principio di necessaria offensivita' del reato puo' subire deroghe, laddove sia necessario anticipare la tutela sino alla soglia dell'astratta pericolosita' in considerazione della natura del bene, salvo pero' a recuperare sul piano della tipicita' il deficit di lesivita' delle condotte incriminate. Al contrario la normativa in esame si rivela estremamente carente sotto questo profilo, sia con riferimento al precetto che alla sanzione. Il rischio e' che la limitazione del bene inviolabile della liberta' personale non avvenga - in questa materia - in un'ottica di bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti, ma piuttosto nella prospettiva di una funzione promozionale del diritto penale, evocata dalla giurisprudenza della Cassazione citata in precedenza, al punto che, al di la' dell'affermazione o meno della sua incostituzionalita', vi e' da chiedersi quanto tale regime sia di effettivo giovamento alla tutela del bene protetto.